FEMMINICIDIO

lunedì 5 luglio 2010

Donne migranti: i diritti da conquistare due volte

Bolzano, 25 marzo 2010


Intervento di Barbara Spinelli (Giuristi Democratici) alla Conferenza "Violenze sulle donne straniere e differenze culturali"

Che cosa fa chi si scopre inesistente? A volte scappa, voglio dire fisicamente, e se ciò non è possibile cerca di reagire, accetta le regole del gioco, cerca di mimetizzarsi con i carcerieri. Oppure si rifugia nel proprio mondo interiore e, come Claire nell’Americano, trasforma quell’angolino in un santuario: in sostanza entra in clandestinità.”
                                                                                        (A. Nafisi, Leggere Lolita a Teheran)



1. Il ruolo delle ONG e degli Enti locali alla luce delle obbligazioni internazionali e comunitarie di eliminazione di ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti delle donne affinchè effettivamente godano dei loro diritti fondamentali.

Una donna che subisce violenza tra le mura domestiche spesso, col tempo, si scopre inesistente, annullata nella propria volontà. Proprio come così bene descrive Azar Nafisi nell’opera citata è la scoperta del proprio non essere più corrispondenti alla propria idea di sé che genera nella donna che subisce violenza la reazione: fuga o mimesi, per la sopravvivenza. La donna che subisce maltrattamenti, violenza da parte del partner, atti persecutori, entra in clandestinità perché sa che è proprio l’espressione di sé, dei propri desideri, a scatenare l’aggressione. La donna straniera che subisce violenza due volte si scopre inesistente, clandestina in casa e fuori, in quanto donna e in quanto straniera. Alla donna, “in quanto donna”, si chiede conformità. Obbedienza. Disponibilità. Rispetto del ruolo che secoli di patriarcato hanno assegnato al suo sesso: madre, moglie, oggetto sessuale, oggetto di culto. Nel momento in cui la donna antepone i propri desideri, le proprie scelte, al comportamento che ci si aspetterebbe da lei in funzione del ruolo che ricopre, la punizione è la discriminazione, la violenza. Il cammino per l’affermazione della soggettività femminile è lungo, e costellato di ostacoli. Per secoli le donne sono state, anche da parte delle Istituzioni, “oggetto di diritto”, subordinate alla disciplina imposta culturalmente e normativamente dalle società patriarcali. Porre in essere azioni di contrasto alla violenza di genere, oggi, implica trovare soluzioni per fare uscire le donne dalla clandestinità della violenza, fornire loro gli strumenti per autodeterminarsi e affermare la propria identità, i propri sogni, i propri desideri, in quanto donne, dentro e fuori dal nucleo familiare. Non più un’azione delle Istituzioni sulla donna, resa “oggetto di diritto”, ma un’azione delle Istituzione per la donna, affinché divenga “soggetto di diritto”. Questo significa, in concreto, agire per il riconoscimento dei diritti umani nei confronti delle donne. Questo è possibile realizzare attraverso una azione di rete interistituzionale di contrasto alla violenza di genere, in quanto ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti della donna per la sua appartenenza di genere, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della Persona (art. 1 CEDAW). Le donne sono state, anche da parte delle Istituzioni, “oggetto di diritto”, subordinate alla disciplina imposta culturalmente e normativamente dalle società patriarcali. Grazie alla statuizione che i diritti della donna sono diritti umani, inclusa prima nella Dichiarazione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e poi statuita nella CEDAW, il genere femminile può ambire a diventare “soggetto di diritto”. Sono proprio gli Stati membri coloro che si devono fare carico della promozione di questa soggettività politica delle donne, mediante l’ eliminazione di ogni ostacolo alla realizzazione dell’autoderminazione delle donne nelle comunità di riferimento. Quando si parla di promozione dell’effettivo godimento dei diritti delle donne come obbligazione internazionale, comunitaria, costituzionale (art. 2 e 3 Cost.) degli Stati – in special modo di quelli che hanno ratificato la CEDAW, si dimentica spesso che, in ragione dell’art. 117 della Costituzione, questa obbligazione ricade, per le materie di competenza, anche sugli Enti Locali. Dunque, nelle politiche di pari opportunità locali, così come nell’azione coordinata di enti locali e ONG, è importante tenere a mente le linee guida e le raccomandazioni internazionali e comunitarie concernenti il tema sul quale si va ad agire. From local to global, e viceversa. In questa sede, per quanto concerne le donne migranti, mi limito a ricordare nello specifico i principi contenuti nelle Convenzioni ONU CEDAW (C. per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne) e CERD (C. per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale), nonché le specifiche Raccomandazioni rivolte dal Comitato CEDAW (2005) e dal Comitato CERD (2008) al Governo Italiano concernenti le donne migranti, e, tra le altre, la Risoluzione del Parlamento Europeo sulla immigrazione femminile 437/2006.



2. Ri-conoscere la violenza e le discriminazioni di genere nei confronti delle donne migranti.

Il problema della violenza maschile sulle donne, come rimarcato dalle osservazioni del Comitato CEDAW, è di carattere culturale: per prevenire il femminicidio è necessario in primo luogo sradicare la mentalità patriarcale che vuole la donna ancora legata ai ruoli tradizionali, sia nel quotidiano privato che nell’immaginario collettivo come di un corpo “a disposizione”: del marito, svestita ed asservita, e della comunità, coperta per pudore o prostituita; utero necessario alla continuità della specie e delle formazioni sociali.Questo immaginario attraversa tutte le culture e impedisce l’effettiva protezione delle donne dalla violenza perché sovente è condiviso da quegli stessi operatori che dovrebbero applicare le leggi antidiscriminatorie approvate dagli Stati in ottemperanza ai principi della CEDAW. Per questo, per poter ri-conoscere la violenza e le discriminazioni di genere, è indispensabile in via preliminare decostruire, a partire da sé, gli stereotipi e i pre-giudizi concernenti il ruolo della donna nella società e nel privato. Specialmodo, per quanto concerne le donne migranti, spogliarsi degli stereotipi concernenti il ruolo della donna sia nella società di origine e in quella ospitanti. Per fare ciò è necessario che l’operatore abbia ricevuto una buona formazione su quali sono le forme della violenza “sociale” e “domestica”, e quali le dinamiche sociali, relazionali, economiche, psicologiche, sulla quale si innesta e che la rendono più feroce nei confronti della donna nei confronti della quale è operata. Ogni singolo caso presenta peculiarità specifiche, per cui in questa sede, per motivi temporali, ci limiteremo ad analizzare alcuni casi concreti a partire dalle domande che eventualmente verranno poste. Una volta adeguatamente formato ed affiancato nel suo percorso, l’operatore è pronto per la fase dell’ascolto. Il primo incontro con la donna è il momento principale, fondamentale, per valutare la situazione di rischio per la donna, e rappresenta spesso forse l’unico momento per rappresentare alla donna che chiede supporto le possibilità che le si profilano davanti per uscire dalla situazione di violenza, e quali sono le probabili conseguenze alle quali va incontro evitando di seguire determinate strategie, quale è il grado di rischio per lei derivante dalla condotta discriminatoria o violenta esposta. Una valutazione superficiale, o una mera presa in carico assistenzialista nei confronti della donna in questa fase, può significare la perdita di chances per la stessa di avviare un percorso di consapevolezza ed empowerment, con il rischio che la stessa si rifugi nella situazione di discriminazione / violenza, accettandola e, come suggerisce la Nafisi, facendone un santuario di clandestinità nel quale sarà difficile raggiungerla nuovamente e motivarla diversamente. La violenza sulle donne migranti è duplice, doppia è pure la difficoltà di trovare soluzioni accettabili per la donna che la denuncia all’operatore sociale. Il processo migratorio femminile, che ad oggi costituisce più del 50% dei flussi migratori diretti verso l’Italia e l’Unione Europea, non rappresenta un fenomeno omogeneo: vi sono donne che subiscono l’immigrazione del nucleo familiare, ed altre che la agiscono in prima persona ricollocando il proprio ruolo economico e familiare in uno spazio transnazionale. Ciò pone in una diversa situazione – anche per quanto concerne la valutazione dei rischi di discriminazione e violenza - donne che comunque, collocandosi in una società nuova, sono costrette a confrontarsi con altre regole, altri costumi, ed un diverso ruolo che si chiede loro di ricoprire nel nuovo contesto di inserimento. Per quanto riguarda le migranti di prima generazione, da un lato, la donna è legata nelle sue relazioni alla comunità di appartenenza, che in alcuni casi la vorrebbe in una posizione subordinata, anche per esplicita previsione di legge del Paese di appartenenza, dall’altro, in quanto straniera, è stigmatizzata nella società di accoglienza che, non riconoscendo la specificità di genere nella migrazione, ne rende incerto lo status giuridico e, di conseguenza, la possibilità di essere soggetto autodeterminato. Ciò comporta una enfatizzazione del ruolo della donna migrante come soggetto debole all’interno della famiglia, interdipendente dal destino collettivo del nucleo, e dunque ricattabile nella relazione coniugale, e/o, in ogni caso, maggiormente soggetta a discriminazioni nell’accesso al mercato del lavoro, nella determinazione del salario, nonché perennemente esposta al rischio di povertà ed esclusione sociale, specialmodo in caso di distacco dal nucleo familiare. Diverso il discorso per le adolescenti di seconda generazione, che spesso sono investite, anche a livello simbolico, della responsabilità di incarnare e riprodurre l’identità collettiva e le tradizioni del contesto di origine del nucleo familiare, pertanto sono sottoposte a forti aspettative e pressioni da parte della famiglia in diversi ambiti di vita (Mara Tognetti Bordogna, 2008), e ciò ovviamente le espone ad un rischio maggiore di vittimizzazione. Diverso ancora il discorso per le richiedenti asilo e le vittime di tratta, per le quali sarebbe necessario un discorso a parte, per il quale sarebbe insufficiente il tempo a disposizione. In ogni caso, questi sono fattori fondamentali da tenere largamente in considerazione nella valutazione delle strategie di empowerment da sviluppare con azioni mirate allo specifico contesto migratorio sul quale si vuole agire.


3. Sviluppare a livello locale strategie di azione di prevenzione e contrasto alla discriminazione e violenza nei confronti delle donne migranti.

Rendere effettivo il godimento dei diritti fondamentali per le donne migranti è possibile creando le condizioni e le procedure che consentano alle donne migranti: a) di sapere poter superare gli ostacoli che si frappongono alla loro completa autodeterminazione (= informazione); b) di scegliere di poter uscire dalla clandestinità della segregazione linguistica, professionale, sociale e della violenza domestica (=accesso effettivo a percorsi di empowerment). In linea generale, le donne straniere si trovano a dover affrontare gravi problemi connessi a:- inserimento lavorativo - inserimento sociale - soggezione allo status maritale - soggezione a reti criminali - stereotipi negativi Porre in essere azioni di empowerment significa individuare strategie specifiche che consentano di superare gli ostacoli linguistici, economici, giuridici, culturali che si frappongono alla possibilità per le donne di autodeterminarsi (giuridicamente e economicamente) a fronte di situazione di grave discriminazione o violenza. Le strategie di base (politiche proattive) prevedono corsi di apprendimento della lingua ma, in maniera particolare, la presenza di operatrici agli sportelli di accoglienza che parlino la lingua dei gruppi migratori presenti sul territorio e, possibilmente, non appartengano a quella comunità. Ciò consentirebbe alle donne un senso di maggiore sicurezza e libertà di esporre la propria situazione. A ciò si aggiungono campagne di informazione nelle lingue veicolari e nelle lingue delle comunità migranti maggiormente presenti sul territorio rivolte alle donne migranti al fine di informarle sulle strutture consultive presenti sul territorio, sui requisiti richiesti per un regolare soggiorno in Italia, sui diritti riproduttivi, sui diritti sul luogo di lavoro, e al fine di prevenire ed evitare matrimoni precoci, matrimoni concordati, rimpatri forzati, o altre forme di costrizione fisica o psicologica. Le campagne devono utilizzare un linguaggio semplice,e divulgativo, oltre che multilinguistico. Per quanto riguarda nello specifico le donne potenziali vittime di violenza domestica, è importante che si individuino luoghi frequentati nel quotidiano dalle stesse (scuole dell’obbligo, supermercati, ospedali, bacheche pubbliche) nei quali possano essere fornite informazioni, perennemente esposte, sui luoghi dove viene fornito un adeguato sostegno medico, giuridico e sociale, sulla possibilità di avere un supporto pubblico in caso di emergenza senza il rischio di perdere i propri figli ed anche abbandonando la propria casa, o senza il rischio di essere denunciate se irregolari. Importante è poi che gli operatori che vengano a contatto con situazioni di violenza domestica o di sfruttamento (sul lavoro, sessuale) seguano alcune fondamentali cautele per evitare un innalzamento del rischio nei confronti della donna che si rivolge al servizio: 1) evitare il contatto diretto con gli autori della violenza per assumere ulteriori informazioni o tentare strategie di mediazione ( è stato evidenziato infatti da numerosi studi e osservazioni sul campo come “mediare non paga”: ovvero espone la donna al rischio di rivittimizzazione -isolamento, rimpatrio, incremento di violenza- ); 2) coinvolgere gli specialisti di riferimento ed evitare in ogni caso di consigliare alla donna la denuncia se prima non abbia già provveduto alla sua messa in sicurezza, all’acquisizione delle fonti di prova necessarie a sostenere l’accusa in giudizio, e non abbia accuratamente valutato le conseguenze che ciò comporterebbe anche in termini di regolare permanenza della donna sul territorio. Questi solo alcuni spunti per il dibattito, prima di lasciare spazio alle domande vorrei concludere, forse in maniera abbastanza scontata, ma con un concetto che ritengo essenziale.

Conclusioni

Il primo muro da abbattere per rendere concreto il godimento dei diritti fondamentali per le persone che si trovano in condizioni più svantaggiate è la mancanza di volontà politica di porre in essere azioni organiche, che vadano a rimuovere all’origine quelle condizioni che favoriscono il permanere di donne e migranti in situazioni di discriminazione e violenza. E dunque, quando si crea una sinergia tra Governo locale e associazionismo, la sfida deve essere questa: mettere in comune fondi, risorse umane, competenze, per pensare in modo diverso la propria comunità. Dunque, una grande spendita di energie, mezzi, risorse. E uno sguardo al futuro nella predisposizione delle strategie di oggi, perché "un futuro democratico alternativo si costruisce giorno per giorno su pratiche democratiche", anche per le donne.



Donne migranti: i diritti da conquistare due volte

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