FEMMINICIDIO

domenica 15 febbraio 2009

ATTI PERSECUTORI. La legge in discussione al Senato.

ATTI PERSECUTORI.
Un primo passo verso la prevenzione del femminicidio.

- Il testo del disegno di legge 1440 presentato dal Governo in Commissione Giustizia (1440):
http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/stampati/pdf/16PDL0005940.pdf

- Il testo di legge approvato dalla Camera ed attualmente in discussione in Senato (1348):
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00360044.pdf


LE NOVITÀ INTRODOTTE

Il reato di “atti persecutori” e le aggravanti connesse.

L’introduzione del reato di stalking risponde all’esigenza di trovare una risposta giuridica efficace nei confronti di molestie “qualificate” che, per la continuità ed il particolare accanimento con il quale vengono perpetrate, si concretano in una vera a propria forma di violenza psicologica, di entità tale da comprimere significativamente la libertà di autodeterminazione del soggetto che le subisce.
Tali condotte, pur rientrando spesso in fattispecie di reato già previste dal nostro ordinamento (molestie, ingiurie, percosse, disturbo alle persone), attualmente, se singolarmente perseguite, non consentono una efficace tutela nei confronti di chi le subisce, in quanto, per via dei limiti edittali molto bassi, non risultano applicabili misure cautelari.
Considerando che la maggior parte degli episodi di atti persecutori avviene da parte di partner o ex tali, appare evidente che la scelta da parte della persona offesa di intraprendere la strada della denuncia penale, in assenza di adeguate misure di protezione della stessa, aggrava in maniera rilevante la possibilità di reazione ed accanimento da parte dello stalker.
Il femminicidio, lo dimostrano le statistiche ma è facilmente intuibile, in queste ipotesi è davvero dietro l’angolo, tali condotte infatti già di per sé sono sufficienti a procurare nel tempo l’annientamento psicologico della donna che li subisce.
Inutile negare infatti che statisticamente la parte offesa in questo reato la maggior parte delle volte è donna, perseguitata proprio in ragione del genere di appartenenza, per aver scelto di porre fine a una relazione sentimentale indesiderata e dunque essersi discostata dal “ruolo sociale” che, secondo una mentalità patriarcale ancora estremamente diffusa, sarebbe chiamata a ricoprire.
Di qui la scelta del legislatore, maturata dopo anni in cui i disegni di legge precursori dell’attuale erano lasciati a sedimentare nelle segrete stanze di Montecitorio, preso atto di una realtà oramai statisticamente provata ma anche scientificamente connotata grazie all’esperienza dei centri antiviolenza, di introdurre una specifica fattispecie incriminatrice.
L’attuale disegno di legge governativo, nel descrivere la fattispecie riprende sostanzialmente con qualche modifica migliorativa il testo proposto dal Governo precedente nel disegno di legge Bindi – Mastella – Pollastrini, affiancando alla nuova fattispecie penale la possibilità per la parte offesa di adire direttamente il Questore per sollecitare l’ammonimento dello stalker.
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Il reato di atti persecutori verrebbe inserito nella sezione terza del capo terzo del libro II secondo del codice penale, tra i reati contro la libertà morale della persona.
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La fattispecie proposta nel disegno di legge governativo incrimina chiunque “con condotte reiterate minaccia o molesta taluno in modo da:
- cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura,
- ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva,
- ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie scelte ed abitudini di vita”.
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La pena prevista per il delitto di atti persecutori è la reclusione da sei mesi a quattro anni.
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La struttura del reato di atti persecutori è disegnata sulla falsariga del reato di violenza privata, già esistente ed ubicato anch’esso nella sezione terza del capo terzo, in quanto posto a tutela del medesimo bene giuridico, la libertà morale della persona.
Ciò che differenzia gli atti persecutori dalla violenza privata è il fatto che le condotte devono essere “reiterate” e possono concretarsi non solo in atti minacciosi ma anche in atti molesti, e comunque sia non in atti violenti (fisicamente) come invece previsto nel caso di violenza privata.
L’inclusione degli atti molesti nella fattispecie di atti persecutori non è di poco conto, in quanto comprende la maggior parte delle condotte di stalking (pedinamenti, telefonate nel cuore della notte, sms..) altrimenti difficilmente provabili e perseguibili.
La corrispondenza tra i due reati si rispecchia anche nel massimo edittale, fissato per entrambe le fattispecie in anni quattro. A causa del maggior disvalore degli atti persecutori, per questa fattispecie il minimo edittale risulta fissato in mesi sei.
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Il reato di atti persecutori così come configurato nel disegno di legge persegue quelle condotte che, a mezzo di reiterate minacce o molestie, provocano una attuale, non istantanea e seria compressione della libertà morale della persona, consistente in uno stato di paura, nel timore per l’incolumità propria o di un proprio caro, nell’alterazione della propria quotidianità. In altre parole, vengono puniti quegli atti ripetuti, molesti o minacciosi, che si concretano in una forma di violenza psicologica di tale entità da produrre effetti concreti sulla libertà di autodeterminazione del soggetto che la subisce.
Lo stalker è colui il quale, attraverso una serie di atti singolarmente apparente innocui o semplicemente molesti, ma che nella loro continuità rappresentano un vero e proprio esercizio sistematico di violenza psicologica, provoca nella persona offesa uno stato di soggezione tale da costringerla a modificare i propri comportamenti (omettere di uscire di notte in luoghi isolati, di passare da un certo posto, di frequentare altri uomini,ecc.) o comunque dover tollerare queste condotte indesiderate temendo per l’incolumità propria e dei propri cari.
Nella versione governativa del disegno di legge pareva limitativa la scelta del legislatore di circoscrivere il timore a soggetti legati da relazione affettiva, in quanto lasciava all’interprete l’amletico dubbio se in tale definizione andassero o meno ricompresi parenti o congiunti “cari”. Per tale motivo, è stato accolto con favore l’ampliamento del novero delle figura da parte del legislatore anche ai prossimi congiunti.
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Ci si auspicava, in tal senso, che fosse stato accolto l’emendamento 1.25 del 30/10/2008 Samperi ed
altri, in cui si proponeva che: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con condotte reiterate e insistenti, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da cagionargli un grave stato di sofferenza psichica anche non patologica, ovvero un fondato timore per l'incolumità o la sicurezza personale propria, del convivente, di un prossimo congiunto o comunque di una persona legata da relazione affettiva e tale da arrecare un significativo pregiudizio alle ordinarie condizioni di vita, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.».
Non solo tale formulazione, rispetto a quella licenziata dalla Camera, sarebbe stata maggiormente aderente ai principi di tassavità e offensività, ma anche meglio avrebbe descritto gli stati psicologici che il giudice è chiamato ad accertare.
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Come peraltro già rimarcato dai Giuristi Democratici in sede di commento[1] al Disegno di legge Bindi – Mastella – Pollastrini1, si sottolinea che all’introduzione del reato di atti persecutori è indispensabile affiancare, onde rendere effettiva la possibilità di proteggere in concreto le vittime di atti persecutori, la predisposizioni di una banca dati che raccolga e metta in comune tra tutti i Commissariati gli avvisi orali, gli ordini di protezione, le denunce e gli esposti presentati dalle vittime di atti persecutori e di altri reati fondati sulla discriminazione di genere o per l’orientamento sessuale. Una banca dati in tal modo strutturata, dovrebbe:
- prevedere adeguate garanzie di privacy per l’indagato/imputato/soggetto pericoloso;
- non avere alcuna rilevanza ai fini dei precedenti giudiziari;
- raccogliere tutte le segnalazioni per un arco temporale pari a cinque anni.
Così caratterizzata la banca dati, consentirebbe alle autorità di inquirenti di individuare casi di stalking anche in quelle ipotesi, molto frequenti in realtà, in cui la vittima denunciante non considera i precedenti esposti per fatti meno gravi eseguiti in altri Commissariati, o semplicemente omette di ricordare altri episodi di molestie di cui è stata vittima, la cui gravità (in termini di rilevanza giuridica) in sé sfugge alla parte.
Una banca dati di tal genere, oltre ad essere funzionale ad una migliore tutela della parte offesa, indubbiamente potrebbe giovare anche al presunto persecutore, a fronte della sempre maggiore “querulomania”, che spinge molti/e ex partner, per astio, a presentare per episodi del tutto irrilevanti denunce su denunce, senza la presenza di condotte materialmente discriminanti o altrimenti offensive. In ogni caso, si ritiene sia il mezzo migliore per tenere monitorate da parte delle forze dell’ordine situazioni critiche che spesso rischiano, dopo molteplici segnalazioni e denunce, di trasformarsi in femminicidi.
Tuttavia, tale suggerimento non è stato accolto dal legislatore.
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Il disegno di legge, oltre ad introdurre il reato di atti persecutori, prevede un aumento di pena se gli atti persecutori sono stati posti in essere da chi abbia intrattenuto con la persona offesa una relazione sentimentale (aldilà della “qualificazione formale” della relazione, se di coniugio, convivenza o altro), ed un aumento fino alla metà se il fatto è commesso in danno di minore, donna in gravidanza, disabile[2], da persona con armi o travisata[3].
Opportuno altresì l’accoglimento dell’emendamento 1.31 del 30/10/2008 Ferranti, Tenaglia ed altri, che anch’esso estende l’aumento di pena fino alla metà quando il fatto sia commesso per finalità di discriminazione o di etnico, nazionale, razziale o religioso o motivato dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere.
Stando al disegno di legge governativo, qualora agli atti persecutori nel tempo fosse seguito l’omicidio della persona offesa, per lo stalker omicida (che nella maggior parte dei casi, stando ai dati statistici, sarà un femminicida) la pena comminata sarebbe stata quella dell’ergastolo. Nella versione del testo normativo licenziato dalla Camera, l’aver commesso atti persecutori risulta invece una mera aggravante dell’omicidio.
Pare strano che il legislatore non abbia allora pure previsto la medesima aggravante per l’omicidio preceduto da maltrattamenti, da violenza sessuale, o dal mancato rispetto degli ordini di allontanamento (civili o penali) o di altre misure di prevenzione o cautelari già disposte a tutela della libertà, incolumità e del benessere psicofisico della donna.

B. La procedibilità d’ufficio per le fattispecie aggravate

Esiste un annoso dibattito sul tema della procedibilità d’ufficio in materia di reati concernenti la libertà sessuale e morale della Persona.
A nostro avviso, nel caso dello stalking, dove la libertà morale di autodeterminazione del soggetto può essere messa in pericolo o lesa da situazioni di gravità ed intensità lesiva estremamente diverse tra loro, l’azione penale non può che partire per consapevole scelta, da parte della persona offesa, di questo strumento di tutela tra i molteplici a propria disposizione, ove la persona offesa sia maggiorenne e sana di mente, dunque capace di autodeterminarsi.
Indubbiamente, appare irrazionale la scelta iniziale del legislatore governativo di ancorare la procedibilità d’ufficio alle modalità con cui vengono posti in essere gli atti persecutori (una delle ipotesi più probabili del 339 c.p.; scritti anonimi) o alla qualità dello stalker: coniuge legalmente separato o divorziato o comunque con cui la parte offesa aveva intrattenuto relazione affettiva.
Si deve considerare infatti che molto spesso è proprio la denuncia ad innescare l’escalation di violenza da parte dello stalker, e se contestualmente alla denuncia non vengono applicate misure cautelari adeguate la persona offesa corre serissimi rischi per la propria incolumità psicofisica.
Ecco perché, a maggior ragione, deve essere la parte offesa a scegliere se, come e quando far iniziare un procedimento penale a carico del proprio persecutore, o se piuttosto, alla luce di valutazione che solo la parte può compiere, nel suo caso reputi più opportuno procedere in maniera graduale, rivolgendosi al Questore, o per via civile, facendo istanza al giudice di emissione di un ordine di protezione.
In ogni caso mai, sulla base di questi presupposti, può essere lasciata allo Stato quella che è una scelta discrezionale e personalissima di modalità di fuoriuscita da una situazione problematica di persecuzione che in maniera così complessa, soprattutto nel caso il persecutore sia un soggetto intimo, va ad incidere sui diritti fondamentali della persona.
Alla luce di tale premessa, non sembra tuttavia fuori luogo la scelta emersa a seguito degli emendamenti in Aula, che prevede la procedibilità solo nel caso in cui (parliamo di persone capaci di autodeterminarsi) il fatto sia stato commesso da soggetto che già ha subito un ammonimento.
Non è una scelta deprecabile perché può avere funzione disincentivante per il soggetto destinatario di ammonimento dal commettere altri atti in danno della parte offesa, sapendo che non da questa dipenderà la sua persecuzione penale ma sarà automatica. Al contempo, la parte offesa che già ha trovato il coraggio di adire l’autorità giudiziaria per far ammonire il suo persecutore, viene in tal modo sollevata dalla responsabilità di continuare ad adire l’autorità giudiziaria in caso di reiterazione degli atti, ma pone in capo all’autorità giudiziaria l’onere di iniziare il procedimento a carico dello stalker che reitera nell’intento criminoso nonostante l’ammonimento ufficiale.


C. L’ “ammonimento” da parte del Questore

L’art. 2 del disegno di legge legislativo prevede la possibilità che la persona che si ritenga persona offesa di atti persecutori, prima di sporgere querela, possa fare al Questore richiesta di ammonimento dello stalker. Questi, valutata l’istanza, ove la ritenga fondata può invitare il soggetto a tenere condotta conforme alla legge, e provvedere sul porto di armi qualora fosse necessario.
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Pare preoccupante ed ingiustificato nel disegno di legge governativo il mancato richiamo all’art. 4 della L. 1423/56, che implica la creazione di una nuova e diversa misura di prevenzione rispetto a quella ivi prevista, non sottoposta alle medesime garanzie procedurali ed alle medesime conseguenze di aggravio in caso di trasgressione, il che certo porrebbe gravi dubbi di costituzionalità.
L’introduzione della possibilità che la persona soggetta ad episodi di stalking possa rivolgersi direttamente al Questore per segnalare la propria posizione, ed ottenere in breve tempo che lo stalker venga ammonito (il tutto nel rispetto delle garanzie previste dalla l. 1423/56), sarebbe proficua in quanto, senza l’intermediazione di un soggetto terzo (avvocato), si otterrebbe immediatamente un intervento che potrebbe risultare utile –magari decisivo- nel far cessare gli atti persecutori, specie nei casi meno gravi in cui non è in pericolo l’incolumità fisica della vittima ma l’aggressore si limita a compiere atti molesti, di disturbo, pur pienamente consapevole del disvalore degli stessi, ma speranzoso di impunità per via della consapevolezza magari dell’impossibilità economica per la vittima di adire un legale.
In ogni caso, così come prevista dal disegno di legge governativo, la misura, oltre che passibile di questioni di costituzionalità, sarebbe inutile ai fini di tutela della persona offesa: infatti se il mancato rispetto dell’avviso orale non comporta alcuna conseguenza sanzionatoria per il trasgressore (così come invece previsto dalla L. 1423/56), l’ammonimento non può certo avere nessuna efficacia deterrente !
Alla luce di tali significative censure, la Camera ha licenziato un testo solo parzialmente modificato. Manca comunque infatti l’inquadramento di cui alla L. 1423/56, ma sono state inserite alcune garanzie procedurali (Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale e` rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito.). Le garanzie procedurali inserite sono indubbiamente pure connesse alle conseguenze previste: aumento della pena per fatto commesso da soggetto ammonito, procedimento d’ufficio per soggetto ammonito che reitera nella condotta criminosa.

Il divieto di avvicinamento

L’articolo 3 del disegno di legge n. 1440, esattamente un articolo dopo l’ordine di allontanamento penale introdotto con la L. 154/2001, prevede l’introduzione della misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Posto che l’applicazione delle misure cautelari al reato di atti persecutori, vista la pena massima fissata in anni quattro di reclusione, sarebbe fuori discussione, e posto che l’articolo in questione ricalca pedissequamente il comma secondo del precedente art. 282-bis c.p., non si capisce assolutamente l’utilità della norma che il disegno di legge vorrebbe introdurre.
L’unica novità, la possibilità per il giudice di disporre, oltre che l’allontanamento dell’indagato, anche il divieto di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con la vittima ed i suoi prossimi congiunti, potrebbe infatti essere benissimo oggetto di emendamento all’art. 282 –bis, senza la necessità di introdurre nell’ordinamento figura sostanzialmente identica al già esistente ordine di allontanamento penale e portatrice di questa sola differenza.

La possibilità di effettuare intercettazioni, incidente probatorio ed esame protetto in
caso di atti persecutori

Si ritiene apprezzabile l’estensione dell’ammissibilità delle intercettazioni anche per il reato di atti persecutori, anche se, analogamente, sarebbe opportuno prevedere la possibilità di intercettazioni ambientali per il reato di maltrattamenti.
Lodevole la previsione della possibilità di esperire l’incidente probatorio anticipato, non solo per i minori ma anche per i maggiorenni su richiesta della parte offesa, possibilità che lascia alla donna l’autodeterminazione, attraverso la propria scelta, di liberarsi immediatamente, esperendo l’incidente probatorio, dal dramma di dover rivivere a distanza di mesi o di anni, in dibattimento, l’esperienza della rievocazione della persecuzione che altrimenti si troverebbe a dover ripercorrere più volte nella fase processuale: nella deposizione alla polizia giudiziaria, nell’eventuale interrogatorio del PM, in fase dibattimentale, a seguito di perizie…Tale possibilità andrebbe estesa anche al reato di maltrattamenti.
Apprezzabile l’estensione dell’esame in forma protetta non solo ai minori ma anche agli adulti, non si capisce tuttavia perché limitare l’estensione ai soli adulti infermi di mente e non invece, ad ogni persona offesa adulta che ne faccia richiesta.

Il prolungamento della validità degli ordini di protezione contro gli abusi familiari

La validità degli ordini di protezione civili viene modificata nel disegno di legge da sei mesi ad un anno. A fronte della possibilità di proroga della misura, non si coglieva l’esigenza di tale prolungamento anche se indubbiamente può risultare utile per la protezione della vittima che sia, nelle more, in attesa degli esiti della procedura di separazione e di affidamento.

Le misure a sostegno delle vittime del reato di atti persecutori

Assenti dal disegno di legge governativo, sono state introdotte invece nel testo di legge licenziato dalla Camera misure a sostegno delle vittime del reato di atti persecutori, che indubbiamente integrano e rafforzano l’efficacia in concreto della normativa nella repressione di tali condotte e nel garantire alle parti offese una maggiore tutela.
L’art. 5 rappresenta un precedente significativo, ottima scelta legislativa di approccio a quei casi in cui agli atti persecutori siano da ricondursi nell’ambito della violenza di genere (del femminicidio). Esso prevede, per la prima in Italia, l’obbligo in capo a forze dell’ordine, presidi sanitari, istituzioni pubbliche, di informare la vittima in merito ai centri antiviolenza presenti sul territorio e nella sua zona di residenza. Altresì, qualora la vittima ne faccia richiesta, le forze dell’ordine, i presıdi sanitari e le istituzioni pubbliche provvedono a metterla in contatto con i centri antiviolenza.
Altresì, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunita` e` stato istituito un numero verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori, attivo ventiquattro ore su ventiquattro, con la finalita` di fornire, un servizio di prima assistenza psicologica e giuridica da parte di personale dotato delle adeguate competenze nonche` di comunicare prontamente, nei casi di urgenza e su richiesta della persona offesa, alle forze dell’ordine competenti gli atti persecutori segnalati. A tal fine, è stata autorizzata la spesa annua di un milione di euro a decorrere dall’anno 2009.

L’esigenza di un segnale forte: la legge entrerà in vigore già dal giorno successivo alla
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale



LE PROPOSTE CASSATE. (Alias: i pericoli scampati)

La sospensione condizionale della pena per chi accetti di sottoporsi a programmi di riabilitazione e la sostituzione della pena detentiva con trattamenti di recupero presso strutture di rieducazione specializzate.

Anche in Italia, analogamente ad altri Paesi europei, è in atto un processo di ricerca comparata, e conseguente dibattito, sull’opportunità e sui metodi che dovrebbero caratterizzare l’azione di riabilitazione degli soggetti violenti nei confronti dell’altro sesso (vedasi lo sviluppo sperimentale del programma MUVI).
E’ diventata ormai opinione e sensibilità comune il fatto che, se davvero si vuole eliminare ogni forma di discriminazione e violenza basata sul genere, si deve in primo luogo provvedere a modificare la disparità di potere che caratterizza le relazioni interpersonali tra uomini e donne (e gay, lesbiche, bisessuali, transessuali), e dunque gli atteggiamenti prevaricatori o denigranti nei confronti dell’altro/a, specialmente nelle relazioni intime, che non è detto siano condotte sempre integranti reato, per quanto comunque incidenti sulla sfera di libera determinazione del soggetto che le subisce.
Dunque, ai fini del raggiungimento di tale obbiettivo, quello dell’eliminazione di ogni forma di discriminazione basata sul genere o sull’orientamento sessuale, pare indubbia la necessità di offrire un servizio a quanti, consapevoli di aver posto in essere dinamiche relazionali aggressive fisicamente o psicologicamente nell’ambito di una relazione intima, verso la donna “in quanto donna” o comunque in ragione dell’orientamento sessuale dell’altra/o, scelgano di iniziare un percorso per mettersi in discussione e pervenire a relazioni rispettose nei confronti della sfera di libertà e dignità dell’altra/o.
Indubbiamente un percorso di tal genere ha successo nella misura in cui il soggetto violento è consapevole del disvalore della propria condotta, e sceglie liberamente e con convinzione di mettere in discussione le proprie concezioni, i propri desideri, tutto sé stesso, per capire cosa lo spinge a tali comportamenti e come modificarli al fine di rispettare la sfera di dignità e libertà altrui.
Pare invece avulsa da quello che è il dibattito internazionale, dalla realtà stessa dimostrata dalle statistiche, ed eco invece di lombrosiani pregiudizi, l’idea che l’aggressore sessuale, o lo stalker, sia un malato, un soggetto da “correggere” o, peggio, da “curare”, anche contro la sua volontà.
Ancorare addirittura la sospensione condizionale della pena alla frequenza di programmi di riabilitazione, significa avallare questa pregiudizievole e stereotipata concezione.
E che la ratio dell’introduzione di questo articolo nel disegno di legge governativo affondi le sue radici in tale stereotipata convinzione emerge con chiarezza dal dibattito parlamentare.
Afferma infatti Giulia Bongiorno che la previsione della sospensione condizionale della pena per chi accetti di sottoporsi a programmi di riabilitazione e la sostituzione della pena detentiva con trattamenti di recupero presso strutture di rieducazione specializzate “potrebbero erroneamente apparire come una sorta di rinuncia alla punizione da parte dello Stato, quando in realtà si tratta di un modo per cercare di recuperare effettivamente lo stalker, che sempre più spesso è un soggetto che presenta disagi di natura psicologica ai quali il carcere difficilmente è in grado di porre rimedio”.
Il dato statistico smentisce la Bongiorno: secondo uno studio condotto da Lattanzi nel 2007 e riportato dall’Osservatorio nazionale sullo stalking, solo il 20% degli stalker soffre di disturbi della personalità e ancor meno, il 5%, di psicosi.
A ciò si aggiunga che indubbiamente anche il miglior programma psicoterapeutico, se intrapreso meramente per evitare del tutto o in parte lo sconto della pena effettiva, sarebbe destinato ad avere una efficacia limitata se non inesistente nel tempo, specialmodo al termine della pena quando il soggetto, ritornato in stato di completa libertà, si trovi a dover affrontare nuovi approcci, nuove relazioni, nuove persone.
Peraltro, non si capisce quale logica dovrebbe portare a parificare il trattamento dello stalker, un comportamento che nell’80% dei casi è posto in essere volontariamente da persona “normale” perfettamente consapevole del disvalore delle proprie azioni che comunque sceglie di accanirsi perseguitando un’altra persona di cui lede incisivamente la sfera di benessere psicologico e autodeterminazione, al trattamento speciale previsto nel nostro ordinamento solo per i malati di AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria: forse che il carcere non solo per gli stalker, ma anche per gli autori di numerosissimi altri reati analogamente puniti, certo non rappresenta il luogo ideale per “porre rimedio alle proprie condizioni”, ai disagi che li hanno motivati a delinquere, siano essi disagi psicologici o semplicemente la povertà o lo stato di clandestinità? Allora non bisogna cercare illusori paraventi rieducativi a giustificazione di misure che, ancora una volta, stigmatizzano ma giustificano la violenza “per amore”, la gelosia eccessiva, (perché di questo parliamo nella maggior parte dei casi quando parliamo di atti persecutori) quasi come fosse una patologia dell’animo da reprimere ma da capire, in fondo, come un “morbo” che corrode l’individuo e ne fa un criminale, che in quanto tale non va punito ma curato.
Dando seguito a tale concezione e lasciando invariato il testo del disegno di legge, si introdurrebbe nell’ordinamento un’ingiustificata e intollerabile disposizione di favore nei confronti degli stalker. Inoltre, risulterebbe inutile la stessa introduzione del reato di atti persecutori in quanto, a fronte della possibilità di “riabilitazione”, non avrebbe alcun effetto deterrente.
Dunque il giudizio su tali disposizioni proposte nel disegno di legge si esprime fortemente negativo, portatore di disvalore sociale, e soprattutto fortemente penalizzante nei confronti della vittima.
Va considerato infatti che, con l’ampio ventaglio di strumenti che la persona offesa da atti persecutori avrebbe a disposizione per tutelarsi, dalla richiesta di avviso orale al Questore all’ordine di allontanamento civile previsto dalla L. 154/2001, qualora essa decidesse di avanzare denuncia penale e dunque sostenere un processo penale a carico del proprio persecutore, indubbiamente l’entità del danno subito dalla condotta non sarebbe di poco conto, e, qualora poi si pervenisse a condanna, sarebbe chiara la pericolosità sociale del soggetto che tali condotte ha posto in essere, e il grado di rischio di condotte vendicative dello stesso nei confronti di chi ha dato inizio al processo a suo carico. Infatti ecco che, a fronte della già difficile scelta da parte di una donna di denunciare il proprio persecutore, e di sostenere il peso del processo penale, una rinuncia a punire da parte dello Stato a seguito di una condanna apparirebbe quantomeno irriverente nei confronti del percorso di liberazione e di autodeterminazione, di trasformazione da vittima ad attore, che la donna sceglie di porre in essere attraverso la denuncia.
Il che non implica che lo Stato debba disinteressarsi dello stalker: per chi ne faccia richiesta, devono in ogni caso essere attivati percorsi di supporto psicoterapeutico o di “riabilitazione”, tanto per il semplice destinatario di avviso orale quanto per il condannato, ma che siano comunque indipendenti dal percorso sanzionatorio eventualmente in essere, che deve seguire il suo corso. In tal modo, si otterrebbe il duplice effetto di favorire in concreto la denuncia da parte del soggetto perseguitato e la “riabilitazione” del perseguitante, raggiungendo almeno il primo degli obbiettivi istituzionali, quello di “riconoscere che la violenza maschile contro le donne è il maggior problema strutturale della società, che si basa sull’ineguale distribuzione di potere nelle relazioni tra uomo e donna”, e “incoraggiare la partecipazione attiva degli uomini nelle azioni volte a contrastare la violenza sulle donne” (Council of Europe, Recommendation 5/2002 of the Committee of Minister to Member States on the Protection Of
Women Against Violence, III), e “riconoscere che lo Stato ha l’obbligo di esercitare la dovuta diligenza nel prevenire, investigare, e punire gli atti di violenza, sia che siano esercitati dallo Stato sia che siano perpetrati da privati cittadini, e di provvedere alla protezione delle vittime” (Council of Europe, Recommendation 5/2002 of the Committee of Minister to Member States on the Protection Of Women Against Violence , II).
Ad ogni modo, si tenga conto che, stando ai dati empirici ed agli esiti dei primi programmi di riabilitazione che da tempo si vanno sperimentando all’estero, in particolar modo in Gran Bretagna e Canada, è emerso che, per essere efficace, ovvero per ridurre quasi completamente il rischio di recidiva, la previsione di programmi di riabilitazione per il reo deve essere connotata da: adesione volontaria, nessun beneficio penitenziario almeno nei primi tre mesi di trattamento, programmi personalizzati di reinserimento sociale.

I GRANDI VUOTI DI TUTELA ANCORA APERTI APERTI

Che l’introduzione del reato di stalking, di per sé sola non sia la risposta adeguata, lo si capisce facilmente alla luce dei fatti di cronaca recente e non. Tuttavia, rappresenta un primo passo importante.
La risposta, anzi le risposte, per garantire a chi vuole uscire da tali situazioni di poterlo fare velocemente e senza ulteriori rischi per la propria incolumità ed il proprio benessere psicofisico, ci sono, e sono molteplici, rinvenibili sia in una adeguata messa in funzione degli strumenti legislativi esistenti (ordini di protezione civili e penali, maggiore utilizzo delle misure cautelari, semplificazione ed accelerazione delle procedure di separazione e divorzio), sia nel monitoraggio e potenziamento degli stessi (velocizzazione dei tempi di decisione, armonizzazione tra le prassi dei vari tribunali), sia in ulteriori interventi “strutturali” di tipo economico e sociale a livello locale (diffusione delle informazioni necessarie perché le vittime sappiano quali siano gli strumenti per uscire da situazioni di
discriminazione/persecuzione/violenza ed a chi rivolgersi sul territorio; formazione alle forze dell’ordine perché in caso di intervento siano in grado di riconoscere episodi di stalking e di violenza domestica o di genere o basata sull’orientamento sessuale e sappiano come procedere e quali informazioni fornire alla vittima; finanziamenti stabili ai centri antiviolenza; incremento del numero di case segrete; previsione di progetti per l’inserimento lavorativo; supporto psicologico; formazione degli organi inquirenti e della magistratura)[4].
Si tratta, insomma, di approcciare con consapevolezza al fenomeno della violenza maschile sulle donne, mai nominata ma spessissimo causa degli atti persecutori, e di combatterla e prevenirla con gli strumenti adeguati.
Le Istituzioni devono farsi carico del compito gravoso di promuovere l’autodeterminazione sulla base del genere, non solo reprimendo penalmente comportamenti discriminatori, ma soprattutto dimostrando un impegno costante per sradicare quei retaggi culturali che ancora oggi rendono possibili barbari femminicidi e macabre spedizioni punitive nei confronti di gay, lesbiche, transessuali.
L’attenzione delle Istituzioni deve essere espressa attraverso la predisposizione di piani di intervento mirati e trasversali, che tengano conto della complessità del fenomeno delle discriminazioni di genere e non si fermino a quelle che sono le sue manifestazioni più eclatanti, la violenza sessuale e gli atti persecutori.
E’ difficile senza un adeguato impatto culturale sulla comunità riuscire a far cessare la violenza di genere, perché essa, come espresso nel Preambolo della CEDAW, “è la manifestazione di un potere relazionale storicamente diseguale tra uomini e donne…uno dei principali meccanismi sociali attraverso i quali le donne sono costrette ad occupare una posizione subordinata rispetto agli uomini.”
Per sradicare il problema è necessario quindi un approccio “olistico”, ovvero un approccio integrato che agisca sia sul piano culturale, sensibilizzando ed informando, promuovendo la diffusione di un’immagine dei generi non stereotipata, ma che operi anche sul piano strutturale, coordinando gli strumenti legislativi già esistenti, aggiungendone di nuovi per ampliare ulteriormente la tutela, potenziando in concreto la funzionalità delle procedure in maniera tale da consentire una facile ed effettiva fuoriuscita da situazioni di violenza.
Per attuare un approccio integrale al problema non è detto debba ricorsi ad un unico provvedimento legislativo come pur avvenuto in Spagna ed altri Paesi europei; è anche possibile intervenire attraverso interventi mirati. Ma questi interventi mai comunque possono profilarsi come meramente repressivi, piuttosto devono intervenire andare ad incidere attraverso azioni integrate sul momento più delicato, quello in cui il soggetto che subisce la violenza o le condotte persecutorie sceglie di allontanare il soggetto violento/maltrattante/persecutore, ma non sa come fare, o non ha le possibilità economiche per farlo, o teme di farlo sapendo di non poter ricevere dall’ordinamento adeguata tutela: di qui la necessità di fornire la maggiore informazione possibile a tutta la cittadinanza sugli strumenti a disposizione per affrontare situazioni di discriminazioni, maltrattamenti, persecuzione, violenza, e l’urgenza di coordinare, per una efficace protezione del soggetto che subisce tali condotte, gli strumenti giuridici civilistici, penalistici e del diritto di famiglia, in modo tale da individuare un percorso immediato e non problematico per uscire dalla violenza e dalle situazioni familiari spesso connesse, senza che questo importi ritardi o complicazioni accessorie.
Non si può colpire duramente l’atto femminicida in sé senza considerare l’ideologia patriarcale dal quale scaturisce, chiudendo l’occhio su tante problematiche di tipo sociale che ostacolano l’effettiva parità tra sessi, ovvero la pari fruizione da parte di tutti i generi dei Diritti Fondamentali della Persona. A tal proposito si ribadisce la necessità, peraltro sottolineata dal Comitato per l’applicazione della CEDAW nella Raccomandazione 19/2005 al Governo italiano, di addivenire a una definizione di discriminazione di genere e violenza di genere, essendo peraltro il Comitato “preoccupato dal fatto che la mancata previsione di tale specifica disposizione possa contribuire a far ritenere di limitata applicazione il concetto di parità sostanziale, come evidente nello Stato membro, anche tra i pubblici funzionari e la magistratura”.
Indubbiamente in tal senso sarebbe significativa la contestuale approvazione, oltre alle misure di contrasto agli atti persecutori, con le dovute modifiche secondo i criteri sopra riportati, anche l’approvazione della proposta di legge Concia, Rossomando, Ferranti, Capano, n. 1658, “Modifiche alla legge 13 ottobre 1975, n. 654, e al decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, in materia di reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.
Altresì, alla luce di quanto sopra affermato, sarebbe positivo che il disegno di legge venisse emendato accogliendo:
- il monitoraggio dei numeri delle discriminazioni e della violenza di genere e dell’efficacia degli strumenti giuridici di contrasto alla stessa, sia attraverso la previsione di rilevazioni statistiche (di cui all’emendamento 4.08 del 30/10/2008 Ferranti, Pollastrini ed altri) sia attraverso una relazione annuale al Parlamento, (di cui all’emendamento 4.06 del 30/10/2008 Pollastrini, Cuperlo ed altri);
- la formazione degli operatori sanitari e giuridici di cui agli emendamenti 4.05 e 4.07 del 30/10/2008 Ferranti, Pollastrini ed altri).

Dott.ssa Barbara Spinelli
Gruppo di studio “Generi e famiglie”
Associazione nazionale Giuristi Democratici

[1] http://www.giuristidemocratici.it/what?news_id=20070627101134
[2] In accoglimento dell’emendamento 1.27 del 30/10/2008 Ferranti, Tenaglia ed altri.
[3] Così nella versione licenziata dalla Camera. Nella versione originaria, la pena era aumentata della metà solo per fatti in danno di minori o al ricorrere di una delle condizioni di cui al 339 c.p.
[4] Si rimanda al dossier in materia di violenza di genere (http://files.giuristidemocratici.it/Zfiles/20070627101134.pdf )
ed all’appello alle istituzioni “per un impegno concreto, per una donna soggetto di diritto e non oggetto di diritti, per
l'autodeterminazione femminile”( http://www.giuristidemocratici.it/what?news_id=20061122082612 ).

mercoledì 11 febbraio 2009

CONTRO LA CULTURA DELLO STUPRO

Maschi, italiani, la vera emergenza siete voi che legittimate e riproducete la cultura dello stupro.

di Barbara Spinelli

A seguire l’ennesimo stupro, immancabilmente i politici e i notabili di turno si sentono in dovere di ripristinare l’equilibrio violato: da bravi patriarchi tuonano nei microfoni e sulle pagine di giornali, promettendoci sicurezza e che giustizia sarà fatta, che ci proteggeranno. Una logica subdola, che paradossalmente rimarca quegli stessi istinti alla base dello stupro: la folle idea che il maschio possa “dominare” sul corpo della donna, farne oggetto delle proprie volontà, mero strumento per la realizzazione dei propri desideri….erotici, ma anche politici (vedasi le dichiarazioni di Berlusconi, sul corpo di Eluana che…può anche riprodurre!).
L’immaginario collettivo sulla violenza sessuale costruito da politici e giornalisti ci propone una donna vittima e un aggressore “mostro” figlio di una barbara cultura, oppure, più raramente, un uomo “normale”, “di buona famiglia”, trasformatosi in mostro in preda ai fumi dell’alcol o della droga. Così i giornali li raccontano, così i criminali sessuali sono entrati nell’immaginario collettivo.
Il discorso pubblico sulla violenza sessuale degli uomini sulle donne è mistificatorio. L’obbiettivo è deviare l’attenzione: o sul presunto bisogno di protezione della donna, o sulla necessità di “lotta ai non luoghi della città” -seguendo le affermazioni di Zingaretti sui fatti di Guidonia-.
La risposta politica è più sicurezza, maggiore controllo del territorio.
Questo approccio è devastante: cancella l’aggressore “in quanto uomo”, cancella la realtà statistica che conferma che la maggior parte degli stupri, delle molestie, delle violenze fisiche e psicologiche, avviene tra le mura domestiche, per mano di coniugi, amici, parenti. Perché questo ci insegna la cronaca delle ultime settimane: se è il rumeno o l’extracomunitario a stuprare ha commesso un crimine e quindi va punito ed espulso; se invece è lo stimato professore di scuola media ad avere abusato sessualmente di una sua allieva, può riservarsi di non rispondere al Gip ed alle “accuse” della ragazza che trova il coraggio di denunciare; se è il ragazzino di una “famiglia perbene”, annebbiato dai fumi di alcool e droga, la vittima lo vuole pure conoscere, lo possiamo perdonare.
In questa isterica rappresentazione collettiva in chiave tragica del dramma dello stupro, sfuma la figura dell’aggressore, maschio, e la lucidità della sua scelta criminale predatoria, per lasciare spazio alla ferocia di un mostro straniero, tossico, alcolizzato, con disagi psicologici, con problemi esistenziali. Rappresentato il dramma, la ricerca del lieto fine ce la offrono politici e opinion man nostrani e di buona volontà, che fanno a gara per mettere a suo agio la vittima di turno, per offrirle un lavoro precario da due lire per tirare avanti, e per tranquillizzare le altre donne spaventate promettendo vigorosi militari a guardia delle strade e sguinzagliati in giro alla ricerca di nomadi e clandestini. Il tutto, mentre l’opposizione punta il dito evidenziando, nonostante la destra al Governo, il “crescere dell’insicurezza”.
E’ chiaro che se la storia puntualmente viene costruita lasciando nella penombra la donna, nella parte della vittima che piange sulla sua disgrazia, e puntando i fari sul protagonista cattivo, lo straniero, e l’eroe buono, il politico-poliziotto italiano che, a stupro compiuto, arriva a gestire la situazione e ripristinare l’ordine, la morale è una scontata richiesta di tolleranza zero e controllo sociale. Si innesca una reazione pubblica di xenofobia e intolleranza nei confronti di clandestini e stranieri, la violenza sulle donne diventa un problema di ordine pubblico, e viene raccontata e condannata solo nel momento in cui si consuma in luoghi aperti e per mano di estranei malintenzionati.
Diventa in questo modo impossibile una riflessione collettiva contro la violenza sulle donne come problema culturale, e addirittura la rappresentazione del problema della violenza sulle donne in termini di “rischio di stupro da parte di estranei in luoghi insicuri” riesce a creare più allarme sociale delle statistiche, che invece rappresentano come rischio dominante quello di violenza in famiglia e molestie sessuali da parte di partner, parenti e conoscenti.
Così, mentre le donne silenziosamente continuano a convivere con traumi domestici quotidiani, a subire ricatti sessuali sul lavoro e ammiccamenti osceni per strada, la stampa e i politici continuano a parlare di mostri.
Come se lo stupro, in casa o per strada, non fosse frutto di una cultura patriarcale, pornograficamente fallocentrica, che vuole la donna disponibile, oggetto sessuale che sorride ammiccante dai grandi cartelloni pubblicitari sulle strade, dalle riviste dei giornali, dai reality, dal Parlamento, sempre disponibile a ruoli servili, gratis in casa e sottopagate fuori.
In Italia stuprare una donna è reato, ma la “cultura dello stupro” non solo è moralmente lecita, soprattutto è socialmente e simbolicamente dominante.
Incombe dai megacartelloni pubblicitari della Relish, pesa come un macigno nelle battute di Berlusconi, da quella sulle precarie che vorrebbe sposate a suo figlio, a quella delle belle donne con il soldato di scorta, a quella – forse involontaria ma non per questo meno inquietante- sulle capacità riproduttive di Eluana, corpo vuoto vincolato a una mera funzione biologica, che solo per stupro potrebbe dare vita.
Vince anche economicamente, la cultura dello stupro, aumentando le tirature dei giornali che si perdono nel disquisire su seni rifatti e propongono nei loro siti fotogallery di donne da calendario.
Forse non è questa la vera emergenza, il monopolio maschile del discorso pubblico, l’accondiscendenza collettiva al gioco perverso degli ammiccamenti fallocratici di vecchi tombeur de femmes, il silenzio collettivo degli uomini “normali” sulle loro responsabilità, l’incapacità di cogliere che la matrice dello stupro sta proprio nel sessismo, in una cultura che esclude dalla soggettività politica le donne e le relega al ruolo passivo di sedotte e seduttrici, donne per bene e donne male, destinatarie in ogni caso di politiche di controllo sociale volte alla disciplina del loro utero, sia esso come strumento di maschio piacere o come strumento di maschia preservazione della specie?
L’interesse marginale (o la non menzione) che la stampa nazionale riserva alle notizie di “normali” anziani cittadini italiani che stuprano le badanti, “normali” professori italiani che stuprano le alunne, “normali” figli italiani che uccidono madre e sorella, “normali” zii italiani che stuprano le figlie della sorella con cui viveva in casa, (giusto per citare notizie pure di questi giorni) ci dimostra che la “normalità” dello stupro –confermata dalle statistiche, ripeto- è un tabù.
E questo silenzio assordante, questa rimozione del problema, è essa stessa un femminicidio simbolico, politico, ideologico, che si ripete ad ogni atto di violenza di un uomo sulla donna, e si rinvigorisce attraverso provvedimenti, leggi e sentenze che di questa stessa cultura si nutrono, giustificandola e riproducendola.
Siamo un Paese governato da maschi ipocriti e moralisti, donne asservite alle logiche dominanti, dove governati e governate sono silenti.
E’ questo silenzio ipocrita e moralista che consente il femminicidio, perché legittima la cultura familista e quella dei cinepanettoni, impedisce lo stanziamento di fondi per politiche di promozione dei diritti delle donne, di informazione e ausilio per scappare dalla violenza, e favorisce invece politiche securitarie, di controllo e gestione maschile del territorio, della sessualità, della maternità, della produttività lavorativa stessa delle donne, depotenziandone il ruolo, marginalizzandone il pensiero, impedendone l’effettiva autodeterminazione ed il protagonismo politico e culturale.
E’ un femminicidio perché la quotidiana discriminazione di donne e lesbiche continua nell’impunità collettiva, tacitamente accettata, culturalmente favorita.
Se il maschio italiano non si interroga sulle proprie responsabilità e non si ripensa nella sua umanità, dismettendo le logiche di dominio patriarcale fino ad oggi fatte sue, questa sì rappresenta una vera emergenza.
Se noi donne e lesbiche continuiamo a tacere su questo, la normalità dell’emergenza ci seppellirà, “in quanto donne”.

domenica 1 febbraio 2009

FEMMINICIDIO di BARBARA CICIONI

Le mie impressioni sull'esame dell'imputato, Roberto Spaccino.

Nei giorni 27 e 28 gennaio si è tenuto, nell’ambito del processo per il femminicidio di Barbara Cicioni, l’esame di Roberto Spaccino, imputato di aver ucciso la moglie .
Molti i suoi parenti presenti in aula, poche le femministe, tutte compagne della rete delle donne umbre. Questo, a quanto pare, è stato elemento di forza per Spaccino, che psicologicamente ha retto molto bene ai due giorni di esame, sempre evitando lo sguardo della suocera, Simonetta, la mamma di Barbara Cicioni.
Nonostante egli continui a negare la propria responsabilità per l’omicidio della moglie, numerose e rilevanti restano le contraddizioni nella “sua” ricostruzione della sera dell’omicidio, del suo litigio con la moglie, della sua vita coniugale.
Ma, aldilà degli aspetti che riguardano l’accertamento la verità processuale, assistere all’esame, per chi estraneo al processo, avrebbe significato cogliere il grado di “normale violenza” della coppia italiana. Un elogio della violenza “soft”, nel quotidiano.
Spaccino, imputato anche per maltrattamenti nei confronti della moglie e dei figli per tutto l’arco della vita coniugale, per rispondere alle accuse mosse dal Pm ed alle testimonianze, già numerose, di episodi di violenza cui avevano assistito anche terzi, si è speso in una sofistiche distinzioni tra violenze “perbene” e violenze “permale”. Io non sono il mostro che hanno dipinto la stampa e la televisione, ha detto. “io a mia moglie non gli ho mai messo le mani addosso, non gli ho mai menato”.
E si spiega. O, forse, a mio avviso ci spiega quello che tanti mariti, tanti padri, tanti figli maschi pensano, quando picchiano le mogli, le figlie, le sorelle, le madri, e si stupiscono se queste se ne vanno, li lasciano, o li portano in Tribunale.
Spaccino rappresenta l’italiano medio, quello che statisticamente fuori casa è lo stimato paesano e professionista, il piacione, e dentro è l’aguzzino. Ascoltare lui, aiuta di certo a capire quali sono i meccanismi di pensiero alla base della violenza, quali sono i meccanismi culturali da scardinare per cambiare qualcosa.
A una corte di giurati attenti, alla sua difesa agitata, alla P.M. che lo esamina ed agli avvocati di parte civile a volte attoniti dalle risposte, racconta con tranquillità, anzi, arrabbiato e urtato quando non viene capito, la distinzione tra discussione (solo insulti verbali) e litigio (quando si menano le mani). Schiaffetti, schiaffoni, “scoppolotti”, “sventoloni”, “smanate” non sono botte. “Botte”, risponde Spaccino a una PM che non riesce a capire, “sono quelle che lasciano il segno” come i “boccaloni”, gli schiaffi forti dati contromano, quelli che invece qualche danno lo fanno, “gli schiaffi veri” che due, tre, quattro volte sono capitati, con Barbara.
Il quadro che ne emerge è quello di una violenza normale, non riconosciuta in quanto tale da Spaccino, che ingenuamente e con dovizia di particolari confessa i maltrattamenti, non riconoscendoli in quanto tali. “O mi spiego male io o non lo so”, dice spiegando le sue distinzioni, “io non ho mai alzato le mani a Barbara”, insiste.
Racconta di una famiglia in cui le discussioni –per il lavoro, per la gelosia di Barbara, o “se la cena non era pronta”, o “quella volta dei calzini” - erano normali: gli “schiaffetti reciproci” si ripetevano “spesso” e, in quei casi, gli sventoloni volavano “per calmarla”. Ma, sottolinea più volte lui, anche Barbara in questi casi “smanava”. Come se parare i colpi fosse una reazione che legittimasse i suoi. Si picchiavano, ma non per farsi male, spiega.
Chiede la PM “ma se dice che gli schiaffetti reciproci è normale, perché dice io non ho mi alzato le mani?” “Perché erano schiaffetti leggeri” risponde lui.
E volavano le parole: oziosa, sfaticata, mi fai schifo, sei un cesso, una puttana come tua madre (colpa della madre, quella di essersi separata in giovane età da un marito violento).
Le discussioni avvenivano anche davanti ai bambini, che li vedevano arrabbiati, “ma solo in qualche discussione leggera”.
Anche quella maledetta sera, nella discussione con Barbara, erano volate delle smanate, e quando lei –secondo la sua versione- si era messa da sola un cuscino sulla faccia, per non far sentire la discussione ai bambini che dormivano nella stanza di fianco, lui l’aveva colpita sul cuscino con degli schiaffetti, “ma leggeri”, non forti, e parava i suoi colpi. Si, perché Barbara, quella sera, gli aveva pure, con una delle sue smanate, fatto male a un dito. Forse l’ha presa anche per il collo, “ma se l’ho fatto è per difendermi”, dice lui, correggendo quanto aveva dichiarato in fase di indagini preliminari, dicendo che non l’aveva presa per il collo, ma forse, toccata sul collo.
Insomma, per Spaccino le parole fanno la differenza, ma bisogna sempre capire come le intende lui. Ad esempio, spiega alla Corte, era vero che, come emerso da alcune testimonianze, si rivolgeva spesso, in presenza della moglie ma anche parlando di lei con altri, “io questa prima o poi l’ammazzo”, ma spiega Spaccino, è un modo di dire del suo paese, “da noi si usa spesso”, “era un intercalare nostro, mio e di mia moglie”. Però, dice, portatore di una saggezza antica, “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. E si apre un surreale siparietto che, se non fosse stato per il contesto, sarebbe stato a dir poco esilarante. “se avessi dovuto uccidere tutti quelli a cui ho detto prima o poi ti ammazzo”, continua Spaccino, forse non ci sarebbe più vivo neppure il suo difensore, che da giovane, quando giocavano a calcio insieme, se lo era sentito dire da lui parecchie volte. La PM lo riprende, chiedendogli se oltre a sua moglie era morto qualcun altro, di quelli a cui l’aveva detto, lui non coglie però la gravità del contesto, e, nell’imbarazzo generale, risponde che sì, erano morti, “ma non di morte violenta, voglio sperare”, osserva la PM, cui lui risponde si.
Spaccino è esasperato dalle domande sul suo rapporto con la moglie, si arrabbia, dice che tutti ce l’hanno con lui e che “io non ne posso più, non posso pensare di avere fatto quello che dicono di aver fatto”, e insiste: “Io a mia moglie non ce l’ho mandata in ospedale, io ne ho vista di gente che fa violenza, che mena la moglie, io non sono così”.
E sorride, nel controesame, in cui risponde alle domande, emblematiche pure queste della linea difensiva, che uno dei suoi difensori gli fa a raffica: “Fuma? Beve? Gioca d’azzardo? Ha mai avuto una relazione extraconiugale fissa?” Tutti dicono che lui è cattivo, ma ….Roberto non beve, non fuma, non gioca d’azzardo, tutti gli anni portava la famiglia in vacanza al mare, regalava le rose alla moglie ad ogni compleanno, salvo poi far scegliere i regali per lei alla zia, “perché si lamentava che gli regalavo sempre le stesse cose”. E, ogni mattina, portava la colazione a tutti a lavorare. E non ha mai fatto delle risse, avuto delle denunce. E’ vero che ha detto qualche volta pure ai suoi figli “ti ammazzo”, ma l’ha già spiegato, è un modo di dire. Se mai ci fosse bisogno di confermare questa sua versione, rinforzarla, gli domanda il suo difensore “ha mai desiderato la morte dei suoi figli?”.
Ogni commento è superfluo.
Si arrabbia Spaccino anche quando si parla delle sue relazioni extraconiugali, (“Barbara non sapeva delle mie scappatelle”) le tante donne conosciute alle terme, quelle conosciute nel giro del calcio, le clienti. Esattamente come avvenuto in sede interrogatorio, alla domanda della PM, se mai avesse fatto delle avances a donne al di fuori del matrimonio, se avesse avuto delle storie, convintamente risponde di no, anche qui accusando di essere stato dipinto male dalle testimonianze, che non ha avuto nessuna scappatella…”si dice che io andavo al night tutte le sere, non è vero, roba che io, nella mia CARRIERA, ci sono andato solo qualche volta”. E, per approcciare, nega, come testimoniato da una ragazza del night, di aver raccontato che la moglie era malata di cancro, che uno dei figli non era suo…”quando stai li qualcosa ti inventi”….In realtà, racconta Spaccino smentendo le dichiarazioni rilasciate in sede di interrogatorio, questa ragazza gli aveva rubato il numero mentre era in bagno, e l’aveva “quasi ricattato”, straniera, facendogli gli squilletti spesso perché lei, straniera, voleva un passaggio….E anche la spogliarellista colombiana, conosciuta a una festa, con la quale ammette di aver avuto un rapporto sessuale, l’aveva provocato…l’aveva chiamato a vedere che doveva lavare dei tappeti, era una cliente della lavanderia…un rapporto in cambio del lavaggio di un tappeto…E poi F., M. e le altre…. Ma non è come dicono loro, lui non ci provava, faceva le battute, “io facevo le battute anche alle 65enni come clienti”. E, quando Barbara coglieva qualcosa, lui si arrabbiava. “Proprio non ne potevo più di questa gelosia..”, è per questo che convince la moglie ad aprire, a nome suo, una succursale della lavanderia in un altro paese, “perché lavorando insieme si discuteva più spesso”….”non la smetteva più di dire…sta gelosia, sta gelosia”.
Ma il punto chiave dell’esame, riguarda alcune intercettazioni avvenute in carcere, in cui Spaccino a colloquio con la sua famiglia, riporta che avrebbe detto al suo legale che era colpa sua della morte della moglie. E’ il suo legale a fargli la domanda, che cosa volesse dire con quelle parole. Nessuno si aspettava una confessione sull’omicidio, arrivati a questo punto del processo. Non alla fine di un esame agitato come questo, non a fronte di una domanda del suo difensore. Infatti, la domanda rappresenta solo un’occasione per Spaccino per raccontare come, in un primo momento, dopo il suo arresto, a causa di tutto quello che si diceva su di lui voleva uccidersi, “l’unica via di uscita” era di dire il falso, cioè dire che aveva ucciso lui la moglie (ma non l’ha detto, se non al suo legale nell’occasione cui si riferisce nelle intercettazioni). Poi ha parlato con la psicologa del carcere che, riferisce, gli ha detto “Perché devi dire il falso se non sei stato tu? Hai due figli fuori!”. Racconta Spaccino, “io questa parola me la sentivo sempre…colpevole…” ma “alla fine ho capito che non potevo dire il falso”, perché, come gli hanno detto la psicologa ed il prete cui era molto legato “non conviene, non conviene se tu hai la coscienza a posto”.
* * *
A differenza del processo Meredith, una storia di sesso, droga, disagio giovanile, morbosamente seguita da media e pubblico, il processo Spaccino è emblematico dei nostri giorni, del radicamento della cultura patriarcale, del sessismo, della crisi del modello famigliare classico.Oltre la storia processuale, in questo esame, nelle testimonianze assunte in dibattimento, la storia di una relazione, la storia di come si concepisce ancora, nella mente di tanti italiani medi, la famiglia, e la relazione con le donne, quelle per bene, “il cervello di tutto”, che si prendono come moglie, ci si litiga, ci si discute per il lavoro, per la gestione dei soldi, per gelosia, e quelle per male, che quando capita, senza rovinare il rapporto coniugale, si abbordano, si seducono, si portano a fare cenette, si portano a letto.La presenza delle donne a questo processo è importante, per conoscere e denunciare questa cultura femminicida, e la non normalità, nei conflitti che pure esistono nelle relazioni coniugali, della violenza psicologica, delle percosse, delle umiliazioni quotidiane.Per ogni donna stuprata e offesa, siamo tutte parte lesa!
* * *
Prossime udienze:12/3, 19/3, 2/4, 14/4, 21/4, 30/4Discussione e lettura del dispositivo: settimana dal 11 al 16 maggio (importantissima la presenza)

Processo a un uomo perbene che picchiava un poco la moglie

Liberazione, 1 febbraio 2008
Roberto Spaccino, al processo per la morte di Barbara Cicioni: «Le davo smanate, non botte»
Laura Eduati
Barbara Spinelli
«Prima o poi ti ammazzo è una espressione delle nostre parti. Mia moglie non l'ho mai picchiata, al massimo smanate e schiaffettoni che non lasciano il segno, la violenza vera è quella che ti manda all'ospedale e Barbara non è mai finita al pronto soccorso». Unico imputato al processo per la morte della moglie Barbara Cicioni, 33 anni, incinta di otto mesi, Roberto Spaccino si difende con un sorriso beffardo. E' accusato di omicidio aggravato e maltrattamenti, la pm Antonella Duchini lo incalza proprio sugli schiaffi che per anni ha riservato alla moglie come parte integrante del ménage famigliare. E lui, stizzito, distingue tra litigio e botte. Il litigio, nel mondo di Spaccino, sono schiaffetti, schiaffettoni, "sventoloni", "smanate", e tutto questo «non sono botte». Perché le botte «sono quelle che lasciano il segno», sono i "boccaloni" dati con il rovescio della mano. Roberto diceva spesso «io questa prima o poi l'ammazzo», l'uomo precisa che questo è un modo di dire di Marsciano, «un intercalare nostro, mio e di mia moglie». Rinchiuso nella gabbia dell'aula della Corte d'Assise di Perugia, l'uomo trova il tempo per scherzare con gli avvocati, salvo poi piangere quando pensa ai figli Nicolò e Filippo affidati al prozio di Barbara. I suoi difensori provano a convincere i giudici che Spaccino quel 24 maggio 2007 non strangolò Barbara perché lui è un uomo perbene, non si ubriaca, non fuma, non gioca d'azzardo e insomma al massimo frequentava qualche night, tradiva talvolta la donna con le clienti della lavanderia e prostitute e tuttavia non aveva una relazione extraconiugale fissa, spesso le urlava "sei una puttana come tua madre" perché la madre aveva divorziato presto da un marito violento, le diceva "sei un cesso" e "sei grassa", eppure Spaccino le regalava sempre delle rose per il suo compleanno ed «era cocchino e premuroso», questo padre di famiglia non è stato mai denunciato per rissa né per maltrattamenti domestici e se Barbara non è mai andata dalla polizia a raccontare che veniva malmenata dal marito, perché mai lui sarebbe poi arrivato persino ad ucciderla? La cronaca del processo Spaccino è la cronaca di un femminicidio che non fa scalpore e che tuttavia racconta l'esasperante normalità della violenza domestica. Spaccino, uomo qualunque, è italiano e tutto porta a pensare che abbia ucciso la moglie: tuttavia non è straniero e non ha stuprato nessuna. Statisticamente, Roberto impersona l'identikit più frequente e sottaciuto: il 69% degli stupratori è marito o fidanzato della vittima mentre soltanto il 10% dei violentatori è straniero. E questo vale anche per i femminicidi.Racconta Spaccino che quella sera, sul tardi, tornò a casa e trovò Barbara morta sul pavimento della camera da letto, i due bambini dormivano nella stanza accanto ma nei giorni successivi disegnarono la madre a terra in un lago di sangue. Agli inquirenti Roberto, ex camionista, disse che erano stati gli albanesi ad uccidere la moglie dopo una rapina: mancavano soldi e gioielli, la casa a soqquadro. Vivevano in una villetta di Compignano, una frazione di Marsciano (Pg). Poche ore prima del funerale scattò l'arresto: Roberto aveva ammesso le liti frequenti, un famigliare durante una intercettazione disse che si trattava di una «morte annunciata» perché in paese si sapeva che Roberto picchiava Barbara ma nessuno aveva il coraggio di intervenire, nessuna folla inferocita come quella di Guidonia si riuniva sotto le finestre della villetta per linciare l'aguzzino di quella donna dal viso dolce e serio. Roberto era uno di loro, un padre di famiglia che portava i bambini a calcio.Come dice Spaccino, era Barbara «il cervello della famiglia»: aveva aperto una lavanderia e la gestiva con il marito. Durante la perizia psichiatrica in carcere, Roberto evidenzia che «il carattere della moglie era piuttosto forte, più del suo (...) una donna forte che non si faceva sottomettere facilmente». Di se stesso, allo psicopatologo forense Giovanni Battista Traverso, dice di essere «un uomo tranquillo»: Traverso afferma che l'imputato possiede «un piano cognitivo sostanzialmente integro» e privo di patologie psichiatriche, cioè un uomo assolutamente normale. Si erano conosciuti ad una sagra di paese quando Barbara aveva appena quattordici anni e lui 18, lei aveva vissuto il divorzio dei genitori in maniera traumatica e non voleva separarsi per evitare un dolore ai figli. Il marito non era affatto contento della terza gravidanza, le ripeteva come una cantilena «questo figlio non è mio». La accusava di averlo tradito, quando era lui a svolazzare di donna in donna. Interrogato questa settimana per la prima volta durante il processo, Spaccino si lascia andare a considerazioni contradditorie: «Barbara era molto gelosa, non so perché». Poi modifica la sua versione: «In tutta la mia carriera ci sono andato (con le donne, ndr ) tre o quattro volte». Sottigliezze. Le prodezze del marito di Barbara sono varie, includono persino un rapporto sessuale con una spogliarellista in cambio del lavaggio di un tappeto del valore di 36 euro. Proprio per sottrarsi al controllo della moglie, l'aveva convinta ad aprire a nome suo una seconda lavanderia a Deruta dove ammiccava e seduceva numerose donne. Con la scusa di un incidente che lo aveva costretto a lasciare il mestiere di camionista, Roberto passava ogni anno una settimana alle terme e anche nelle piscine calde trovava gradevole la compagnia femminile. Dai verbali dell'udienza emerge la dicotomia sessita: a casa la moglie e madre seria, fuori le frequentazioni allegre («Certo che la gelosia di Barbara mi dava fastidio, io le dicevo che non c'era niente. Del resto lei che ne poteva sapere? E le avventure, si sa, ce l'hanno tutti»). Lavorava come un mulo, la donna, figli e lavanderia e un marito che pretendeva tutto. La sera della sua morte avevano litigato, Roberto insisteva per andare quella sera tardi a fare il distillo in lavanderia, Barbara sospettava che fosse una scusa per dedicarsi a nuove scappatelle, lui aveva alzato le mani contro Barbara e lei si era messa un cuscino davanti la faccia per attutire i colpi e non svegliare i bambini, questo è almeno il racconto del marito che oggi ripete continuamente che lei gli aveva fatto male al dito, quel 24 maggio. La famiglia Spaccino fa cerchio attorno al figlio accusato di omicidio, d'altronde un giorno Barbara aveva colpito col mestolo Roberto sulla mano e il suocero, vedendo il figlio col dito sanguinante, le aveva detto: «Se non la smetti di toccare mio figlio ti mando a casa tua e ti rompo la falce sul collo». Nel clan Spaccino la violenza era usuale, tanto che la cognata di Barbara le aveva suggerito un avvocato che curasse la separazione.Nel corso del suo esame, il 27 e 28 gennaio scorsi, Spaccino se la prende con la stampa e la televisione accusandoli di dipingerlo come un mostro: «Io a mia moglie non ho mai messo le mani addosso, non gli ho mai menato». Una visione distorta della violenza: io non sono violento, sono violenti gli altri, gli stupratori, gli stranieri, quelli che mandano all'ospedale. E senza rendersene conto si contraddice, ammette che gli «schiaffetti» erano continui per motivi banali e quotidiani, «se la cena non era pronta» oppure «quella volta dei calzini», e comunque gli schiaffetti erano reciproci, anche Barbara «smanava» e dunque lui doveva mollarle dei ceffoni «per calmarla» come se reagire per legittima difesa, da parte della donna, lo autorizzasse a rispondere con maggiore forza. Successe anche il 24 maggio 2007, Spaccino ammette di aver schiaffeggiato la donna ma di essere uscito alle 23.30 per andare alla lavanderia quando Barbara era steso sul letto, viva, e di averla trovata morta al ritorno, a mezzanotte e mezzo. Dall'autopsia risultò che la Cicioni era stata strangolata verso le dieci e trenta, massimo undici, provocando inoltre la morte in grembo della piccola Viola. E poi i Ris trovarono tracce di sangue della vittima, portate dall'assassino, dalla camera da letto fino al garage e dentro l'Opel Zafira di Spaccino. Il 30 maggio l'uomo venne arrestato e portato nel nuovo pentitenziario di Capanne, nella periferia di Perugia, con l'accusa di omicidio volontario aggravato da futili motivi, dalla crudeltà verso la vittima e dal rapporto fra coniugi. Successivamente venne trasferito al carcere di Terni, dove si trova tuttora. La procura di Perugia gli contesta anche gli abusi nei confronti di Barbara e dei figli poiché li ha costretti ad assistere ai maltrattamenti, l'interruzione di gravidanza e la simulazione di reato.Cinque associazioni aveva chiesto di costituirsi parte civile, i giudici perugini ne hanno accettate tre (Telefono Rosa, Differenza Donna, Comitato internazionale 8 marzo), mentre le altre due (Giuristi Democratici e l'associazione Ossigeno onlus) stanno comunque seguendo il processo insieme con la Rete delle donne umbre e il Sommovimento femminista di Perugia per fare comprendere che la morte di una donna per mano del marito è una violazione dei diritti umani.Il processo Spaccino, al di là della cronaca giudiziaria, entra nelle viscere di un delitto famigliare e della violenza domestica, mostra come in una grottesca pièce teatrale i meccanismi alla base del sessismo e del patriarcato: la madre di Roberto che chiama «puttane» le donne che il figlio frequentava, la difesa di un uomo che minimizza le botte e considera «sfaticata» la madre dei suoi figli. Le femministe chiedono alle donne di partecipare alle prossime udienze del 12 e 19 marzo, 2, 14 e 21 aprile e per la lettura finale della sentenza di primo grado a metà maggio.